Jim Thompson e i miserabili del continente americano
A cura di Leonardo Sciortino
Deve essere diventato una sorta di costume sociale, quello per cui d’estate chi è solito leggere nel tempo libero si dedica alla narrativa poliziesca, thriller, noir e giallistica: per usare una più sintetica espressione anglosassone: alla “crime novel”. Perché? Perché sono romanzi facili, scritti con stile scorrevole, che tengono accesa l’attenzione del lettore alternando momenti di suspense e di orrore ad elucubrazioni logico-deduttive degne di un premio Nobel. Sebbene gli scaffali delle librerie abbiano un ricambio di narrativa “crime” tale che è difficile star dietro a tutte le novità, nel reparto “biografie” o “storie vere” è arrivata in Italia la vita di uno dei più influenti narratori noir made in USA: “Jim Thompson. “Una biografia selvaggia” (Alet, traduzione di Sebastiano Pezzani, per un totale di ben 637 pagine, euro 20,00) è un’opera voluminosa, che ha richiesto la penna di un saggista americano del calibro di Robert Polito per essere compiuta.
“Una biografia selvaggia” è senz’altro un titolo azzeccato: nato nel 1906 in Oklahoma, Jim Thompson per tutta la vita ha dovuto sbarcare il lunario prestandosi ad ogni sorta di lavoro umile, mescolandosi con tutte le categorie di lavoratori o di scansafatiche dei bassifondi americani. Respirare tutti i giorni la stessa aria di chi si illude ancora di poter realizzare il proprio Sogno Americano nonostante riesca appena ad avere due pasti caldi al giorno, di chi di fronte alla prospettiva di arricchirsi è disposto a compiere i crimini più atroci senza porsi troppi problemi di coscienza, di chi la sera getta via lo stipendio in birra e whisky nei bar lungo la strada che porta a casa (l’alcol sarà vizio che accompagnerà Jim Thompson per tutta la vita), tutto ciò ha fornito all’autore un vasto campione umano da cui trarre spunto per i suoi romanzi, coi quali ha cercato per tutta la vita di racimolare qualche spicciolo per pagarsi l’affitto.
A differenza di altri grandi maestri del noir classico come Dashiell Hammett e Raymond Chandler, i romanzi di Thompson si distaccano dal filone poliziesco o investigativo, e si associano a quel sottogenere che si dedica a descrivere la sporca realtà degli strati più bassi della popolazione statunitense, quella delle periferie e degli umili bar talvolta dipinti da Edward Hopper. Tuttavia non stiamo parlando di una sorta di Verga all’americana: innanzitutto, a differenza del maestro del Verismo italiano, Thompson ha vissuto l’ambiente che descrive, non lo ha visto da lontano, ma ci si è immerso (e l’uso quasi esclusivo della narrazione in prima persona rende facile l’immedesimazione al lettore); in secondo luogo, rimaniamo sempre nel genere noir. Quindi siamo all’interno di un’ambientazione criminale, violenta, abitata da psicopatici e sociopatici la cui mente è sezionata in modo quasi scientifico dall’autore, offrendo al lettore ritratti veritieri di una vasta gamma di perdenti di cui è difficile non innamorarsi. Se ne innamorò sicuramente Stanley Kubrick: dopo aver letto “The killer inside me” (1952), che descrive come “il più spaventoso e credibile racconto in prima persona su una mente criminale che abbia mai letto”, il celebre regista americano affiderà allo scrittore la sceneggiatura di due film che verranno girati da Kubrick stesso nel ’56 e nel ’57, “Rapina a mano armata” e “Orizzonti di gloria”.
Thompson non guadagnò granché neppure dal cinema, nonostante certe trasposizioni su pellicola dei suoi scritti siano diventati classici del cinema, come “Getaway!” di Sam Peckinpah, motivo per cui restò a scrivere soprattutto romanzi che però restarono nell’ambito delle edicole senza raggiungere il successo editoriale. Prima di morire per malattia nel 1977 ad Hollywood, si narra che consolasse sua moglie rassicurandola sulla futura fama delle opere; magari lo diceva semplicemente per evitare fastidiosi piagnistei; forse ci credette veramente al valore dei suoi scritti. In ogni caso fu profetico: da quando hanno cominciato ad arrivare pubblicamente gli elogi da parte di grandi narratori come Stephen King e Jo Nesbo o da parte di personaggi del mondo del cinema del calibro dei fratelli Coen, attorno alla figura di Jim Thompson si è creata una sorta di aura magica fonte di ispirazione per i narratori e sceneggiatori “crime” del nuovo millennio.
E a ragione: sebbene il genere letterario a cui si è dedicato venga comunemente – e nuovamente a ragione – annoverato tra la letteratura di consumo, leggendo più attentamente la sua opera traspare una presa di coscienza sulla realtà delle miserie umane e una conoscenza degli oscuri meandri dello spirito umano molto nichilista, velatamente marxista, che, accompagnate da uno stile secco, scorrevole, ma mai banale, rendono lampante la statura e lo spessore letterario dello scrittore. Leggere “In fuga” per credere: un romanzo lineare, ma che nel finale assume aspetti quasi metafisici nel descrivere una società immaginaria, metafora del capitalismo, dove i rapporti umani sono totalmente privi dei sentimenti base dell’umanità (amore, solidarietà, amicizia…), alienati dalla sete di denaro e dall’angoscia di perdere i propri beni materiali, per il mantenimento dei quali la vita di un uomo è soltanto un ostacolo da eliminare senza troppi problemi di coscienza, il tutto nell’illusione di essere sulla strada che porta alla realizzazione della propria esistenza.
Non sembra si sia sbagliato di molto.